Data: 30/04/2019 - Anno: 25 - Numero: 1 - Pagina: 19 - INDIETRO - INDICE - AVANTI
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AUTORE: Domenico Cristofaro (Altri articoli dell'autore)
“Non si potta mai vidìra nu scarpàru riccu mu vacia allu mulìnu cu llu saccu.”
Questo proverbio veniva spesso citato per evidenziare lo stato d’indigenza di questa categoria di lavoratori. E pare che gli “scarpai” davvero fossero i più poveri. Quelli che non avrebbero mai potuto portare al mulino un sacco pieno di frumento per macinarlo e avere, quindi, pane a sufficienza. Probabilmente la parola “lesinare” proviene proprio dagli scarpari che, nel loro lavoro, per cucire le tomaie alle suole adoperavano un utensile chiamato, appunto, lèsina. Ho fatto questa premessa perché voglio parlarvi di mastro Francesco Gualtieri detto Picciunnèḍru, uno scarparo protagonista di un episodio di umanità che supera, probabilmente, la leggenda di San Martino e del suo mantello. Mastro Francesco era nato a Davoli ai primi del secolo scorso ed era figlio di Domenico Gualtieri e Vittoria Corasaniti. I Gualtieri non potevano dirsi poveri. Possedevano infatti la casetta, un orticello, un pezzetto di oliveto e un piccolo castagneto. Ma, per poter sbarcare il lunario e procurarsi il necessario per vivere dignitosamente, dovevano anche coltivare alcuni terreni a mezzadria. Il piccolo Francesco Gualtieri era quello che al giorno d’oggi si direbbe un bambino superattivo. Purtroppo, però, all’età di tre anni, era stato colpito dalla poliomielite, un male, oggi, per fortuna, scomparso, ma che a quei tempi era abbastanza frequente. A Francesco, la poliomielite fregò una gamba, cioè, come si diceva allora, “restàu ciuncu ’e na gamba”, per questo i genitori pensarono bene di fargli imparare un mestiere, cioè procurargli un lavoro che gli desse da vivere ma nel quale non fosse necessario camminare o stare in piedi. Il mestiere dello scarparo, appunto. Fin da subito Francesco si distinse nel suo lavoro imparando alla perfezione il mestiere tanto che, ancora giovanissimo, aprì una bottega tutta sua. Erano gli anni trenta del secolo scorso e, come si diceva allora, “la fame si prendeva con la pala.” Quasi tutti vivevano di agricoltura, molti coltivavano a mezzadria i terreni di proprietari ingordi e avari che si approfittavano dei poveracci che non avevano altra risorsa. Mio nonno per descrivere la grettezza di questi personaggi, raccontava che pretendevano persino la metà degli sfaldi di potatura delle viti… e guai a non darglieli. Ma quelli erano i tempi e, se non avevi niente di tuo, dovevi sottostare a ogni angheria pur di poter sfamare la famiglia che quasi sempre era anche numerosa. L’unico sbocco di lavoro, l’unica alternativa a questa situazione era andare al “Marchesato”. Ogni anno, da maggio a luglio, da tutti i paesi della costa jonica, in tantissimi partivano per andare nel Crotonese per i lavori di mietitura del grano e per la raccolta di fave e ceci. Non essendo ancora diffuse le macchine, tutti questi lavori venivano eseguiti manualmente e si aveva, quindi, necessità di molta manodopera. Un lavoro durissimo. Dieci ore al giorno, sotto il solleone, in una pianura cretosa, senza la possibilità di avere neanche un attimo di riposo all’ombra, neanche quando ti sedevi a mangiare. Ma torniamo alla nostra storia. A questa storia di umiltà, fratellanza e accoglienza. Valori che dovrebbero essere il pane quotidiano per ogni essere umano. Purtroppo, invece, è vero il contrario, sintetizzato dal proverbio calabrese: “U gurdu ’on crida all’addijùnu”, in pratica, “chi ha la pancia piena se ne frega di chi muore di fame.” Così come è vero che “chi più ha, meno dà”… e cerca pure di allontanare il bisognoso per timore di perdere i suoi vantaggi. Ecco, invece, come si comportò lo scarparo mastro Francesco nei confronti di uno più povero di lui. Verso la fine del mese di maggio, un giovane davolese, di nome Vittorio, doveva andare a lavorare al Marchesato per la mietitura del grano, perciò aveva necessità di una ventrèra, una specie di grembiule di pelle che serviva ai mietitori per proteggere il corpo dai graffi dalle sfregature provocate dagli steli del grano. Vittorio per la sua ventrèra chiese a mastro Francesco se gliela poteva preparare per la partenza entro pochi giorni. Mastro Francesco controllò e resosi conto che aveva pelle a sufficienza rispose di si. Vittorio spiegò pure che non aveva i soldi per pagare ma lo avrebbe fatto quando, a Dio piacendo, sarebbe tornato dal Marchesato. Mastro Francesco lo rassicurò… “…Allòra ma facìti ca quandu tornu do Marchisàtu vi pagu e vegnu u mʼa pigghju nʼatri quattru jorni…” Puntualissimo, dopo quattro giorni Vittorio passò a ritirare la ventrèra che, altrettanto puntualmente, mastro Francesco gli aveva preparato. “Quandu partìti pe ‘u Marchisàtu?” Chiese al giovane. “Staju partèndu propriu mò. Pigghiu u trenu a Suvaràtu”, gli rispose Vittorio. Francesco lo scrutò dalla cima dei capelli alle dita dei piedi e si accorse che ai piedi nudi non aveva niente. “E… così, scarzu ti ndi vai? ’On poi faticàra nt’a restùccia senza scarpi.” “E chi pozzu fari? ’On mi pozzu permettìri… Senza ventrèra ’on pozzu faticàri, ma senza scarpi si.”, disse Vittorio quasi allegramente… “Aspètta nu pocu: pròvati chista.” Mastro Francesco si era abbassato per togliersi una delle sue scarpe che aveva offerto al giovane... “Comu ti stacia?” Chiese poi. “Bbona! Perfètta… ma vui?...” Mastro Francesco si tolse pure l’altra e sorridendo: “’On ti proccupàra! A mmìa i scarpi non mi sèrvanu, eu staju dintru, e non pozzu mancu caminàra.” “Grazi! Grazi!” Vittorio, rimasto senza parole, se ne andò con le lacrime agli occhi. Alla fine di luglio Vittorio tornò dal Marchesato e andò subito da mastro Francesco per pagare la ventrèra. Ma, come aveva previsto, non aveva guadagnato abbastanza per pagare pure le scarpe ma aveva risparmiato sulla razione di formaggio pecorino che gli davano da mangiare tutti i giorni e portò le formine risparmiate a mastro Francesco, ringraziandolo ancora. (Nota bene. Quanto è stato scritto non è frutto di fantasia ma pura e sacrosanta verità.)
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